Sophie, due mesi a Nosy Be

Sin da piccola ho sognato di diventare infermiera, e sin da piccola ho sognato di andare in Africa, ma sin da piccola mi ero anche già posta una condizione molto concreta: quella di partire con la sicurezza di poter dare davvero una mano e non solamente per “regalare” dei semplici e gratuiti sorrisi.
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Arrivata a Nosy Be, dopo dodici ore di attesa a Malpensa ed altrettante di volo, era notte inoltrata e non c’era alcuna illuminazione. Durante il viaggio in macchina tra l’aeroporto e l’ambulatorio, mi sono fatta trasportare dai nuovi e buonissimi profumi che continuavo a sentire e non riuscivo ad associare assolutamente a niente. Arrivata all’ambulatorio, e accolta da Monica (dottoressa responsabile del coordinamento dei medici volontari), mi sono subito addormentata sotto un’immensa zanzariera, al riparo dalle mille zanzare che mi avevano da subito presa in abbondante simpatia. Quando, la mattina dopo, mi sono scaraventata in balcone, mi sono resa conto di essere dall’altra parte del mondo. Quello che potevo ammirare erano baracche fatte in Falafa, zebù che tiravano carretti, una gran quantità di macchine scassate che viaggiavano senza rispettare alcun tipo di regola della strada e, fuori dal nostro ambulatorio, un grandissimo numero di uomini, donne e bambini, seduti in attesa di essere visitati. sophie2La prima domanda che ho posto a Monica è stata “Dobbiamo visitare tutti oggi?” e la sua risposta è stata “Sì, benvenuta al Life”. Mi sono così rimboccata le maniche, messa le infradito e diretta subito all’ambulatorio.

Non sapevo se sarei stata in grado di adattarmi alla cultura, ai valori e ai costumi del Madagascar. È stato un cambiamento culturale radicale, che mi ha segnata. Fin da subito ho deciso che avrei voluto immergermi con tutta me stessa in quest’esperienza che si è rivelata, poi, piena di forti emozioni, sorrisi, lacrime, gioie e, talvolta, anche di grande rabbia e molte frustrazioni.

Così, sono  stata scaraventata in un’altra realtà, una realtà in cui i pazienti vengono a farsi visitare a volte quando è troppo presto o – più spesso – quando è troppo tardi, in cui il “medicamento” è collegato alla guarigione di tutto, in cui una mamma ignora che il suo neonato non può essere nutrito con latte di zebù, in cui si vede ancora la lebbra, la tubercolosi, la sifilide e la gonorrea. In cui se una persona si presenta all’ospedale locale, deve essersi già procuratá tutto l’occorrente per la sua visita (il tampone, la siringa, la provetta, ecc.). Spesso mi sono confrontata con delle situazioni che mi hanno messo seriamente alla prova e mi hanno posto di fronte a sfide che tuttora non sono in grado di affrontare adeguatamente.

sophie1Posso e possiamo (penso anche al resto dell’équipe) essere grati a Henry (il nostro traduttore tuttofare) e a Dudu (la nostra governante) per averci accompagnato e supportato nella nostra attività, per averci permesso di capire – traducendo – i nostri pazienti, per averci insegnato anche qualche parola di malgascio e per averci introdotto ai valori e ai costumi della popolazione del luogo.

Ci sono diverse cose che mi hanno colpito e sconvolto. Fra queste il turismo sessuale, di cui si vedono tracce e manifestazioni ovunque, poi il contrasto tra il grande lusso presente nella vita degli hotel e l’estrema povertà della popolazione locale. Ma è stato proprio quello che c’era al di fuori di quelle mura, e lontano dai turisti, che mi ha fatto innamorare di Nosy Be e della sua gente.

Sono stata sull’isola per due mesi e sento di averli vissuti fino in fondo. Abbiamo sudato e lavorato moltissimo. Talvolta raggiungevamo i 60-70 pazienti al giorno. Ho imparato a contrattare in qualsiasi tipo di situazione, a ballare con le bottiglie sulla testa, ho provato a camminare portando la spesa in equilibrio sul capo, ho imparato a remare sulle piroghe, a interessarmi dei problemi quotidiani delle persone, trascorrendo con loro la maggior parte del mio tempo libero e condividendo le mie e le loro inquietudini.

Ho imparato a dire qualche parola e frase in malgascio. Sapevo salutare, ringraziare, porre qualche domanda, conoscevo il nome di qualche parte del corpo e altre parole utili per il nostro lavoro (dolore, bruciore, prurito, ecc.). Spesso i pazienti e le persone che incontravo per strada ridevano a causa della mia pronuncia e degli errori. Ma è proprio grazie a questo che ho potuto avvicinarmi e mostrare fattivamente la mia volontà di interagire con loro.sophie4

Posso dire di essermi innamorata, come credo tutti gli altri volontari del Life,  di Tatanae, una bambina albina di 5 anni, adottata a distanza da Cristiana Feltri (dottoressa responsabile della camera iperbarica). Tatanae veniva in ambulatorio tutte le mattine per fare una doccia e la colazione. Essere svegliata da quel piccolo angioletto biondo era la mia prima gioia del mattino. Ho avuto l’onore di poter trascorrere dei momenti emozionanti con lei, con la sua nonna e il suo papà, come accompagnarla alla festa di fine anno della scuola e in questo, pur non essendolo, mi sono sentita anche un po’ la sua mamma. Anche con lei, il fatto di parlare francese è stato di grandissimo aiuto.

Ho vissuto questa esperienza molto intensamente e mi sono portata a casa dei benefici ben più grandi di quelli che ho potuto lasciare. A Nosy Be ho lasciato un pezzo di cuore e, se me ne sarà data la possibilità, ritornerò, per lasciarne un altro pezzo, quando possiederò più competenze ed esperienza professionale da mettere a disposizione dell’équipe e di Life for Madagascar.

Auguro a Life di avere la forza e di disporre delle risorse necessarie per continuare la sua importante e bella azione, ma anche per reclutare, formare ed impiegare personale medico e infermieristico locale, per acquistare medicinali e medicamenti adeguati e per potersi occupare delle trasferte dei pazienti che, per forza di cose, devono recarsi all’Hôpital Be e alla Clinica di Padre Stefano ad Ambanja. Il tutto per garantire continuità all’azione dell’ambulatorio, affinché tutti i grandi sforzi fatti finora sfocino in un progetto sempre più completo ed efficace. Fantastica la frase di Barack Obama che apre in questi giorni la homepage del sito lifeformadagascar.org: “Non è più il caso di considerare i paesi poveri del globo come destinatari della nostra beneficienza. Dobbiamo invece aiutare l’affamato a sapersi sfamare da solo e il medico a curare il malato. Lo facciamo perché non crediamo solo nei diritti delle nazioni: noi crediamo nei diritti dei cittadini“.

Un grazie speciale a Monica Colombini che mi ha accolta sotto la sua ala e mi ha accompagnata in questa meravigliosa esperienza, a Sergio e ad Emanuela Marastoni che sono sempre stati disponibili per qualsiasi tipo di bisogno, sia da vicino che da lontano.